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La storia del segno invisibile in ognuno di noi nel libro d’esordio di Aimee Bender

Un segno invisibile e mio

Titolo originale: An Invisible Sign of My Own

di Aimee Bender

Traduzione di Damiano Abeni e Marina Testa

Edizioni Minimum Fax

Collana: Sotterranei

2002

260 pagine

E’ datato 2002 il libro della californiana Aimee Bender Un segno invisibile e mio. Romanzo d’esordio della Bender (prima, al suo attivo “solo” racconti pubblicati su riviste letterarie come Paris Review e Granta), quarantatreenne che è riuscita -sfatando ogni luogo comune sulla soleggiata L.A.- a sfondare come scrittrice in California, a km di distanza da quello che è considerato il vero tempio dell’editoria e dell’industria libraria, New York.

Come mai proprio ora tutto quest’interesse per la Bender e per i suoi esordi letterari? Perchè solo da pochi mesi è stata edita (sempre dalla validissima casa editrice romana Minimum Fax) la sua ultima fatica, L’inconfondibile tristezza della torta al limone, titolo che ha colpito la mia attenzione e mi ha spinta ad interessarmi a questa autrice, une delle più promettenti tra le nuove leve della letteratura angloamericana dei giorni nostri. Così, per avvicinarmi alla Bender, ho deciso di tentare un approccio di tipo cronologico, risalendo agli inizi della sua carriera. E ho finalmente scoperto un libro come non se ne leggevano da molto tempo. Un realismo “macabronirico”, così definirei la scrittura della Bender, sempre aderente alla realtà, ma in modo tutto personale, filtrato dalla soggettività di protagonisti con un’interiorità parossistica e complicata.

Un segno invisibile e mio è la narrazione in prima persona delle -apparentemente irrilevanti- vicende di Mona Gray, ventenne insegnante di matematica alle scuole elementari, con un passato da ex-atleta promettente e un presente, altrettanto promettente, da amante di asce (?) e mangiatrice di saponette (sì, avete capito bene) per uscire da imbarazzanti appuntamenti galanti. Messa alla porta dalla madre, che la vuole rendere una persona responsabile, Mona vive in sordina, tra umilianti insicurezze, auto-svilimenti, volute incertezze. Insoddisfatta dei suoi fallimentari rapporti amorosi, emotivamente lontana dai genitori, Mona trova piacere solo nella matematica e nei numeri e interagisce con strani personaggi  come il vecchio signor Jones, che gira con appesi al collo numeri diversi ad indicare il suo umore, la piccola Lisa Venus, alunna portata per la matematica che utilizza i tubicini delle flebo a mo’ di cappellini, il collega che insegna scienze e fa recitare ai bambini i sintomi di malattie terminali. E proprio quando si sente ormai “sbiadita” e umiliata, presa nel dolore che attanaglia la sua famiglia e nella paura di morire di suo padre, Mona ritrova -entrando in contatto con queste figure- se stessa e la voglia di vivere. Così anche il guscio opaco di tristezza attorno a lei si spezza.

La Bender inventa mondi surreali per raccontare l’America di oggi: onirico e poetico, ma di una poetica del quotidiano, lo scenario descritto dalla Bender strappa molti sorrisi e diverte. Ma è un riso amaro, che cela la difficoltà del vivere quotidiano di una 20enne atipica (o forse, paradossalmente, prototipica) che cerca di capire che strada prendere, cosa essere.

Da leggere e rileggere la storiella che fa da cornice al libro e che viene raccontata da Mona prima al lettore nel prologo e poi a Lisa Venus, nel finale: stessa struttura ma diversi dettagli narrativi a testmoniare l’evoluzione interna della protagonista.

Curiosità: dal libro, è stato tratto nel 2011 anche un film omonino, con Jessica Alba nei panni di Mona. Atmosfere macabro-grottesche alla Chuck Palahniuk.

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