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Libri: «Firmino», di Sam Savage

«Quando cominciai a scrivere Firmino non sapevo nemmeno che Firmino fosse un topo, né che fosse a Boston, né che fosse un romanzo. Se non sto mettendo giù una storia, mi siedo davanti alla macchina da scrivere (oppure ora, al computer) e armeggio senza una vera e propria idea, l’equivalente scrittorio di passeggiare a zonzo. Spesso non ne viene fuori nulla, ma non sempre…». E così nacque un successo.

Finito di leggere l’ultima pagina vorremmo che anche Firmino, che ci immaginiamo nascosto nell’ombra a divorare chissà quale libro, fosse partecipe del trionfo della sua storia che comincia con il ritrovarsi improvvisamente vomitati dal caldo utero materno, farsi largo fra tredici fratelli e scoprire che le mammelle sono dodici e tu sei l’ultimo.

Dall’abbandono e dall’isolamento nasce così il tentativo di riscatto: Firmino non è solo, ha i suoi libri, dapprimafonte di sostentamento fisiologico e poi spirituale. Lawrence, Anna, Lolita e molti altri vivono in lui e, da loro, egli impara a prendere le distanze dallo squallore dell’ignoranza che lo avvolge e tenta di toglierlo dal mondo, tuttavia, forse troppo tardi per capire che è proprio quella la fine dei sognatori. Ma questo non ha importanza.
Resterà, comunque, solitario baluardo della ragione dei vinti, di quelli che sono rimasti schiacciati dal peso dell’indifferenza, di quelli che facendo a meno del tiepido latte si sono nutriti dell’amaro sapore della carta che cura e ferisce insieme.
Se siete affamati di arte e fallimento, la storia giusta è quella di Firmino, il topolino goffo e malinconico che è riuscito a salvarsi da se stesso.

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